Rina Macrelli

Lo ricordo, Giulio, sempre un poco ansioso. Come se sentisse di continuo che qualcosa gli sfuggiva, nonostante tutto quello che possedeva, che si era costruito: pittura, famiglia, amicizie. Qualcosa che rimaneva oltre la superficie dei quadri, oltre l’espressione, anche la più sincera, dell’amico, dell’amica. Era inutile rassicurarlo che c’era affetto, stima, contatto umano. In fondo non ci credeva, o era come se preferisse non crederci. Lui la sua ansia la coltivava. Ci costruì intorno una sua strategia di difese. Restò legato (come una vela è legata al vento) alla sua cara Terza e in questo suo attaccamento osò sfidare tutto un costume, quando girare per il paese sotto braccio alla propria moglie era non solo ridicolo ma addirittura eversivo. Non c’era solo da sfidare un maschilismo robusto; bisognava fare i conti anche con il separatismo socio-culturale delle donne, retaggio di antiche divisioni di lavoro, che si esprimeva nelle forme più svariate.
Penso a mia nonna Lucia, maestra sarta, a quando da vecchia cominciò a uscire qualche volta la sera con mio nonno Alberico per andare a bere un bicchiere di vino, ma proprio uno all’osteria. Faceva partire il marito con un piccolo anticipo, gli camminava poi dietro a una decina di passi senza guardarlo, senza mostrare alcun legame con lui, come per dire che lei andava per scelta, non per dovere di coppia.

Mia moglie

Mia moglie


Giulio era ansioso, curioso, voglioso di rapporti e insieme timido. Perciò era assai facile ferirlo. Capitava spesso che un amico comune arrivasse dicendo: “Giulio si è impermalito”. Non si fidava e, paradossalmente, te lo diceva. Anche in questo era diverso, non aveva la comune e un pò ostentata giovialità dei romagnoli. L’affetto per gli amici lui lo esprimeva di sbieco, con imbarazzo e quello che diceva era sempre o troppo o troppo poco. Quanto gli costasse perdere un amico l’ ho capito indirettamente una sera d’estate che si stava a prendere il fresco in un locale in collina, fuori Santarcangelo. Ascoltavamo Giulio illustrarci le ultime scoperte della sua strategia contro il fumare: tagliare la sigaretta a metà, forarla con uno spillo all’estremità che va in bocca (in questo modo un pò di aria buona si mescolava al veleno aspirato e un pò di frustrazione puniva la sua dannata anima di fumatore ; che poi, si badi, gran fumatore non era). Io dissi che le tecniche sono inutili, che ci vuole una decisione netta. Mi guardò con quel suo sorriso da malinconico uccello rapace, vagliò la mia superbia di ex-fumatrice, mi disse: “Aspetta che ti capiti un dolore vero, poi vedrai se non ricominci a fumare. Aspetta che un amico ti tradisca”.
Con la moglie Terza nel marzo del 1946

Con la moglie Terza nel marzo del 1946


Nelle settimane scorse, mentre curavo la pubblicazione delle poesie di Giuliana Rocchi (La vóita d’una dòna) e stavo controllando le prime bozze, ho scoperto sul retro di un foglio di Giuliana una frase scritta con l’altra mano: “Cara Giulietta sei veramente brava. Buon lavoro. Giulio Turci, 3 ottobre 1974”. Non ho avuto bisogno di chiedere a Giuliana particolari di quell’incontro tra Giulio e le sue poesie.
Ho visto Giulio, con la mia mente, salire nelle Contrade dove per anni ha abitato proprio di fronte alla Rocchi, l’ho visto fermarsi (se era mattina) al bar dove Giuliana va ad aiutare sua sorella Ida, oppure cercarla (se era pomeriggio) a casa in via della Cella e non trovarla, perchè Giuliana è sempre in giro ad aiutare qualcuno. L’ho visto entrare in qualche modo in possesso di questo fascio di carte, portarselo a casa, leggerlo con emozione, provare a restituirlo e incontrare le stesse difficoltà, rassegnarsi a lasciarlo al bar o dagli Scarpellini (amici e vicini di Giuliana) ma con sù scritto il suo pensiero. L’ho visto lì sulla porta (“non entro, non voglio disturbare…”), scrivere il suo messaggio (“non voglio che creda… non è per dare un giudizio…”), sparire.
Di solito, quando lo penso, lo penso vicino al mare. Il mare d’inverno, sotto il sole. Non però in vista del mare, piuttosto nelle vicinanze. Non saprei dire perchè. In casa ho un suo disegno acquerellato di vent’anni fa, un soggetto che torna spesso nella sua pittura. C’è un lungo e piatto moscone posto parallelamente alla riva, tra i ciuffi di tamerici. Sopra ci sono otto uomini, sei in piedi,due seduti. Stanno lì in gruppo, ma come per compiacere l’amico artista che vuole ritrarli. Non sono marinai, sono ortolani, di quelli che tirano sù i meravigliosi orti di Bellaria e di Castellabate e sulla spiaggia ci vanno solo per un momento e mai d’estate. Stanno lì, ma si vede benissimo che pensano ad altro, a quello che devono andare a fare, tranne forse il più giovane, che si porge con tranquillo compiacimento, e il più magro dei due seduti, che sembra approfittare con sollievo della breve occasione di riposo. Il mare è alle spalle, il lavoro li aspetta. C’è tra loro, nel dover stare insieme senza fare nulla, senza dire nulla,come un lieve disagio, un ‘ansia. Tutto questo, per me, è l’amico Giulio.