Le prime prove di Giulio Turci datano tra la fine degli anni Trenta e gli inizi dei Quaranta, con alcuni paesaggi dipinti a Badia Tedalda e a Serravalle di Bibbiena, e poi con altri ispirati alla campagna di Gorolo, dove era sfollato nel 1944 a causa della guerra.
Olio su faesite, cm. 40 x 85; firmato a destra in basso: Turci; sul retro la data: novembre 1963.
Dopo il passaggio del fronte si rivelarono importanti per l'artista le frequentazioni avute con un gruppo di amici pittori: i coetanei e conterranei Lucio Bernardi e Federico Moroni, il più anziano Emo Curugnani, riminese, che portava con sé spatole cezanniane e paesaggi plumbei. Nel1947, con i giovani amici, incontrò a Santarcangelo Renzo Vespignani, che andava proponendo un uso originale del disegno a china, da cui Turci trasse stimoli fondamentali. Per la grafica, infatti, venne premiato nel 1952 dall'Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone, occasione che segnò l'avvio di un periodo creativo molto intenso.
Olio su faesite, cm. 30 x 50; firmato e datato a destra in basso: Turci 65.
Grafica e pittura si intrecciarono in maniera indissolubile nella sua produzione, peraltro riunita in mostre italiane che dal 1960 in poi si fecero sempre più numerose. La musica (era violoncellista), i viaggi (esplorò instancabilmente Europa, Asia, Africa), l'eredità singolare di una famiglia composta di artisti e di poetici pionieri (la madre, Maria Sarti, era stata attrice a Plymouth, il padre Giulio, clarinettista, introdusse negli anni Venti il cinema a Santarcangelo) affinarono la sua accesa sensibilità, sospesa tra sogno metafisico e profonda coscienza del reale. Nascono così le marine solitarie, popolate appena di vecchie barche in disarmo, di inquietanti orologi, di matrimoni improbabili, di grasse bagnanti, di palloni colorati su cieli plumbei, cui è affidata la percezione, rabbrividente, del mistero.
La storia dell'arte del Novecento nella Romagna meridionale soffre ancora di spazi inesplorati, peraltro di non poco conto. Si attende, ad esempio, che venga valutata la reale incidenza della figura di Filippo De Pisis, che iniziò a frequentare l'Adriatico (e precisamente Cesenatico) dall'estate 1919, soggiornando in seguito diverse volte a Rimini, fino al1943 (cfr. Giagnoni-Vannini, 1983, passim). Questa città non era però meta solo estiva. Insieme con l'amico Marino Morettii il pittore vi si.recò ad esempio nel febbraio 1925, scrivendo il dieci del mese: "Sono qui a Rimini a dipingere il mare così dolce in questo luminosissimo mattino invernale" (Giagnoni- Vannini, 1983). Quel mare che fu così importante per il concepimento delle sue nature morte: "Fu veramente sua l'invenzione di collocare due fichi secchi sulla riva mediterranea di un mare, non omerico, panziniano ", come ebbe ad affermare Giuseppe Raimondi (cfr. Arcangeli, 1951); e ricordiamo che De Pisis aveva conosciuto Alfredo Panzini a Bologna già ne/1916.
Olio su faesite, cm. 70 x 50; firmato e datato a destra in basso: Turci 67.
La poetica dell'artista ferrarese non dovette perciò essere completamente aliena ai riminesi, se non altro per quelle sue frequentazioni panziniane. Giovanni Sesto Menghi o Demos Bonini ricavarono infatti da De Pisis più d'uno spunto (cfr. Pasini, 1978). Ma l'esempio del pittore dovette essere fortissimo, se a distanza di vent'anni se ne possono scorgere i riverberi proprio nelle opere del Turci qui esposte, che di De Pisis intendono principalmente quei valori metafisici, di spiazzamento, dettati dalle conchiglie, dall'uva, dai fichi o quant'altro incontrati o rinvenuti sulla sabbia, contro la striscia lontana del mare. Turci, però, abbassa i toni della tavolozza, chiude con spatolate cineree cielo e mare, costruisce un inesorabile "campo di concentrazione", non accetta lo sperdersi nei chimerici cieli del ferrarese, i suoi "sensi scoperti", il suo "mare carico d'ombra e d'azzurro" (Arcangeli, 1951). Nessuna atmosfericità si coglie in Turci: se dipinge di novembre, attende il giorno in cui il cielo è scuro, carico di presagi (come faceva, tempo prima, il riminese Curugnani), denso di umido scirocco. De Pisis invece, a febbraio, a Rimini, coglie il "luminosissimo mattino invernale", "il mare così dolce". Direi anzi che il mare dell'artista santarcangiolese, elemento costante di quasi tutti i suoi dipinti (e qui visibile in tre delle quattro opere presentate), non è più nemmeno adriatico, sembra asiatico invece, coslgrigio-verde, immoto come acqua malata, premonitore, plumbeo come quello che incontrò Gozzano al largo delle coste di Malabar. E se anche nell'Aringa possono scorgersi ancora tracce depisisiane (la si confronti, ad esempio, con la Natura morta con pesce e quadro del 1932, in collezione privata torinese; in Cristallini-De Luca, 1983, la materia aggressiva, cupa, gli argenti scagliati sul corpo morto, irrigidito su un foglio, o panno, bianco-grigio come un sudario campito contro un cielo nero, sembrano piuttosto richiamare i sussulti di un Soutine. La materia ispessita di toni scuri si ritrova anche nel Pendolo, che s'erge cupo, come un inquietante totem segnatempo, su una spiaggia di duro lapillo: natura morta di inesplicabili ingranaggi, racchiude al centro del peso una grossa pupilla radiante, traduzione minacciosa dell'occhio dada deil'Object à détruire di Man Ray.
da catalogo "Oggetti di ferma" Nature morte dal XVIII al XX secolo nella romagna meridionale A cura di Gabriello Milantoni
Comune di Verucchio Assessorato alla Cultura Pinacoteca comunale
20 luglio - 28 settembre 1986
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