Che Giulio Turci sia un pittore amato dal pubblico vasto e non solo regionale è una cosa ormai assodata. Lo dimostrano le numerose mostre allestite in Italia e all’estero dagli anni Quaranta in poi. Lo dimostrano anche i numerosi attestati critici ottenuti in più circostanze, e non soltanto quelli (medaglia d’oro del Senato della Repubblica, aprile 1970, e, nel luglio 1971, il premio Europa Arte).
Lo dimostrano i ricordi personali lasciati come preziosa eredità sui quali riflettere. Il suo è infatti un ‘personaggio’ che va ben oltre le formalità ed i riti di circostanza; e ben sia stata accolta allora nel trentennale della sua scomparsa la retrospettiva (Santarcangelo di R., palazzo ex Monte di pietà – 2 novembre/6 gennaio, organizzata dall’Istituto musei comunali di Santarcangelo e dall’Associazione che a lui si richiama), per un’escursione riepilogativa a tutto campo sulla sua opera e sulla sua umanità, colmando così importanti ‘lacune’ precedenti.
Sul catalogo di una precedente mostra promossa (giugno 2001, promossa dall’associazione Sigismondo Malatesta e dalla Biblioteca Classense di Ravenna nelle rispettive sedi della Rocca malatestiana di Santarcangelo e negli spazi della Manica lunga dell’istituzione ravennate) dall’Istituto musei comunali e dall’Associazione che a lui si richiama, una foto scattata al tempo del ‘nevone’ (1929), ritrae Giulio Turci, allora dodicenne, in una posizione molto curiosa: ritto, serio, con le braccia conserte e serrate sul petto; al collo porta una ‘sciarpona’ annodata, mentre un cappellaccio floscio è calcato sul capo. Sembra il fotogramma d’un presagio artistico. In tanti suoi quadri, infatti, molti suoi soggetti verranno sistemati in quella posa, come qualcuno sintetizzò: ‘infissi e zitti sul confine di spazi inerti’.
Turci, in quegli anni giovanili, studiava violoncello, anche se non tardò poi molto ad abbracciare quella sorta di ‘urgenza interiore, che presto iniziò a tradursi prima in disegno e poi in pittura’. In famiglia, del resto, Giulio, trovava quanto di meglio un giovane potenziale artista santarcangiolese potesse desiderare; tra l’altro un padre, anch’egli di nome Giulio, clarinettista e bene avviato fotografo, che sarebbe risultato molto prezioso nella fase d’avviamento.
Negli anni Venti, sempre il padre, con Caio Carlini, aveva dato luogo a l’Eden, ovvero la prima (mitica) sala cinematografica del capoluogo clementino.
Giulio junior, intorno agli anni Trenta, ormai decisamente votato alla pittura, scoprì a Rimini alcuni validi punti di riferimento: Brici, Ravaioli, Pasquini; ma anche Curugnani e, dal 1947, nientemeno che Vespignani.
Turci prese a sostare instancabilmente tanto sui moderni (come Carrà, Sironi, Morandi ), quanto sugli antichi (come Piero della Francesca o Paolo Uccello). Non trascurò neppure (in quegli stessi anni formativi) le preziose ‘tracce’ che gli erano offerte dall’ arte pittorica straniera ospitate nel suo paese. Giungendo, quindi, per una cospicua somma d’esperienze, ad elaborare e affinare un proprio inconfondibile stile ‘venato di distillati succhi metafisici’. Giulio Turci espose molto all’estero (in particolare amò Mostar,città caratteristica della Bosnia-Erzegovina) e nelle località più importanti della Penisola. Da queste esperienze, raccontano i suoi biografi, riportò una serie innumerevole di ‘insegnamenti’ di varia entità, poi, sedimentati nel suo profondo. Straordinario fu l’impatto con quell’Africa ‘imbevuta di silenzio’ dove disse di avere avvertito per la prima volta ‘l’eletto sentimento del vuoto’. E destino volle che, proprio in Kenia, nel gennaio del 1978, egli andasse incontro ad un doloroso epilogo ‘già scritto, in quell’Altrove di cui sempre aveva percepito il battito muto’.
Un inedito spiraglio di luce sulla sua umanità è fornito da un ricordo rivelato della figlia Miresa, che da anni cura con discrezione e sensibilità la ‘tutela e lo studio’ dell’opera del padre, uno degli artisti santarcangiolesi e romagnoli più significativi del secolo scorso.
“Mi accade sempre più spesso – racconta infatti Miresa Turci – di smarrire oggetti inutili o di poco conto. Minimizzo ogni volta l’accaduto, pensando che prima o poi essi risalteranno fuori. Invece, senza rendermene conto, ricomincio dapprima una distratta ricerca, eppoi, una ostinata perlustrazione dei luoghi più improbabili. Quand’ecco che, all’improvviso può giungere il sogno della notte.
Nel dormiveglia, tutto quanto mi circonda svanisce silenziosamente, come in una morbida danza. Lascio allora, in queste circostanze, che tutto s’allontani senza porre ostacoli”.
Momenti arcani, questi, tutti privati, in cui Miresa non nasconde di sentirsi assalita da una sorta di leggerezza assai simile a quella provata molti anni prima in alcune sere d’inverno, quando il padre rincasava dalla solita solitaria passeggiata attraverso i vicoli del Borgo per scorrere, poi, successivamente, attorno all’alta mura, che allora proteggeva il verde della Basca.
“Lassù – rivela ancora Miresa Turci – so che amava fermarsi qualche minuto nel punto in cui il profumo del mare si mescola alla fragranza delle querce. So anche, che amava socchiudere gli occhi verso l’orizzonte, come fanno i gabbiani… “. Poi, solo qualche minuto dopo, ed eccolo di nuovo in casa. E lo si avvertiva quando tornava. Anche perché, dalla sua stanza, prendevano ad effondersi nella vaporosa umidità della sera le note ‘protettive e melanconiche’ di un violoncello. Il suo, mai dimenticato, mai trascurato, violoncello.
Roberto Vannoni
Da Valmarecchia – Marzo 2015 n.54
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