Giulio,
ma ti ricordi quando abitavi in via Verdi, accanto a casa mia, dopo il fronte, e un pomeriggio mi avrai visto aggrapparmi al tronco del fico e saltare di là nel campo del silos granario, dietro casa nostra per fare delle piccole buche accanto alla rete e mettervi dei semi di girasole?
Dovevi avermi visto perchè all’improvviso mi voltai verso la tua finestra per i colpi delle imposte sbattute contro il muro, ed ecco apparire, preceduto solennemente da un verso prorompente in un fragore insospettabile, un pittore col basco calato sulla nuca, il pizzetto, un grembiale scuro, e col pennello in mano dar dei tocchi rapidi, di slancio, verso una tela invisibile.
Poi, come colto di sorpresa, scoperto da qualcuno, affacciarsi alla finestra, spalancare le braccia, e, producendosi in una salutazione imprevedibile, chiudere di colpo le imposte.
Appoggiato alla rete mi fermai a lungo a ridere guardando alla finestra chiusa, in attesa di una ricomparsa.
Quella scena deliziosa l’avevi preparata proprio per me, eri certo che mi sarebbe piaciuta. Infatti la rivedo ogni volta che entro nel campo del silos. La scena poi era rivolta ai pittori ufficiali, gli accademici, i “Protagonisti dell’Arteitaliana” di quel tempo.
Si era nel dopoguerra, non ancora del tutto convinti di trovarci a casa nostra, di poter dedicarci liberamente, e come ci era possibile, al nostro disegno, alla nostra pittura.
Amavamo Van Gogh, naturalmente, e andavamo a pitturare in giro : la tavoletta di compensato, la cassetta con la tavolozza e i colori sulla bicicletta.
Adesso vedo che il nostro “verniciare” era per un’ansia quotidiana accompagnata dallo scontento e da un reciproco incoraggiamento. Poi, voltate le spalle a tutto quanto, c’era la voglia di ridere che era la nostra miglior forma di evasione.
La possibilità di divertirci con personaggi comuni, quotidianamente inosservati, ma eravamo noi a immergerli, a loro insaputa, in situazioni, luoghi,ambienti, inventati. Li usavamo, travestiti, in attività professionali per loro impossibili: dallo spazzino al musicista, dal corridore al gran prelato, dal saltimbanco al chiromante. Gliele facevamo far tutte per ridere.
Ed era questo che ci salvava: in tempi come quelli eravamo davvero dei privilegiati.
Vedendoci da lontano, affrettavamo il passo per venirci incontro, per le sempre nuove possibilità di ridere.
Quando poi c’era anche il nostro Lucio Bernardi, allora non ci mancava altro per star bene.
Adesso ti racconto che cosa ho fatto per il pianoforte nuovo. Io non ne ho voglia di studiar musica, lo sai, imito il jazz a modo mio, ma c’è Michele che col suo Maestro la sta imparando per benino. Allora, affinché per l’umidità della parete non mi accadesse, come tu hai ammonito ultimamente, “di vedere presto sui tasti comparire una muffina verde, e doverlo poi rivendere per diciottomila lire”, ho messo un manto di nailon sul retro, poi alzando il coperchio superiore, vi ho fatto cadere dentro, ascoltandone i colpi sul legno del fondo, un cartoccio di palline di naftalina: per i topi e per i tarli.
E adesso vado perchè ho da fare. Ciao, Rigo.
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