Trapassando dal soggetto georgico-produttivo al soggetto balneare ed a quello ludico-scenico, la linea subisce delle modificazioni, la costruttività diventa più libera ed ariosa, il risultato espressivo svela maggiormente le peculiarità tipiche. Lo sviluppo compositivo dev’essere rintracciato partendo dal segmento elementare della retta e della curva. La loro coesistenza o il loro respiro isolato, dopo le incertezze o il groviglio delle prime esperienze, acquistano via via l’andatura disinvolta. È agevole scorgerle ambedue. Basta pensare alle rette dei muri lunghi, delle aste degli ombrelli (che a volte da sole creano la profondità prospettica), al loro parallelismo nei suppedanei, alla loro intersezione nei pavimenti a scacchiera. E basta ricordare le curve collinari dei primi paesaggi, dei binari, degli scafi. Se l’impianto delle marine le elimina dal rilievo, adottando lo schema stereotipo delle tre orizzontali spiaggia-mare-cielo, le curve tuttavia permangono sempre, per esempio con l’ondulazione sabbiosa del suolo, con le calotte degli ombrelli o le sfere dei palloncini, con le parabole delle tende all’orizzonte. La retta e la curva forniscono così alla struttura dei quadri gli stilemi più inconfondibili. che sono la semicirconferenza, il cerchio, il triangolo “turcianamente” sottesi alla vita delle forme. L’artista affonda le radici nel geometrismo primordiale, e quantunque non dissolva la concretezza dell’oggetto nell’astrazione di un formalismo assoluto, la dispone o la circoscrive troppo spesso nella compagine di un’architettura matematica. Da tale punto di vista Turci, più che un romantico anarcoide, è un classico memore della misura leonardesca, anche se l’unità compositiva di certi suoi quadri resta problematica. È sufficiente osservare la serie di siepi, fili spinati e tende, dove le verticali fitte o rade dei paletti, dei bastoni o delle canne chiudono lo sguardo nel rigore di un semicerchio rustico e solitario. E quando Giulio inserisce in quell’arco le curve di un canestro, o di una barca, o di un dorso umano, il gioco degli emicicli ideali si moltiplica e s’intreccia sotto le sensazioni della privacy o del riparo, emanata dall’insieme figurativo. Ma lo schema della semicirconferenza diventa ancora più vario con le calotte degli ombrelli, prima poggiate sulla sabbia, poi issate sulle aste, quindi librate sempre più in alto, ghirlande di segmenti circolari ormai non più fatte per l’ombra o il riposo, ma per coronare lo spazio di un bel sogno colorato. Il tema degli ombrelli assume persino accenti scherzosi, quando le calotte multicolori e isometriche, ridotte alla loro curva essenzialità (senza la retta dell’asta) svolazzano nell’aria o sulla sabbia, scompiglio di volumi, ribaltamento di prospettive. Se poi guardiamo le forme umane, possiamo scorgerle in emiciclo come la siepe: non altrimenti appaiono i bambini dinanzi al Crocifisso o attorno al violoncellista, non altrimenti i grandi in alcune gustose figurazioni. Ma la composizione turciana non si accontenta del semicerchio. Già nell’ombrello stesso la sequenza ciclica degli archi convive con un’altra predilezione strutturale. Il cerchio o l’ellisse si ritrovarono non solo negli oggetti che l’artista ripete incontentabile; lo sgabello, il sedile della poltrona, il tavolo rotondo, il palloncino, la giostra, segnalano la frequenza della linea circolare. Egli dispone secondo questo modulo anche la contiguità delle forme per farle gravitare attorno ad un centro misterioso. Sono i gruppi caratteristici dei suoi quadri, ove le persone compongono una convergenza corporea per suscitare nell’osservatore la domanda inappagata sul perchè dell’incontro. Da notare che attorno al centro ignoto non restano sospesi soltanto gli uomini, ma anche le cose come le sedie o le barche. E in certe costruzioni più ampie l’artista dipinge addirittura due ellissi di persone impenetrabili e precluse fra il messaggio musicale degli orchestrali e il dolore immolato del Crocifisso. Dopo queste osservazioni la struttura triangolare potrebbe apparire meno rilevante nell’opera turciana. Eppure, se oltrepassiamo i contorni delle immagini, ci è facile vederle circoscritte anche nella geometria di questo schema. I triangoli variopinti che screziano i palloncini sono soltanto una trasposizione epidermica delle triangolazioni più sottili, più sofisticate che compaginano il mondo di Giulio. Non vogliamo riferirei unicamente alla disposizione triangolata di certi gruppi, o a certi incontri di tre figure che descrivono un prisma triangolare. Anche quando i personaggi sono più numerosi possono assumere tale disposizione prismatica, dando l’impressione di triangolazioni multiple previamente architettate. Il riflesso di questa figura è percepibile un pò dovunque e costituisce l’elemento forse più raffinato, se non più poetico, di tante composizioni. Intendiamo alludere ai vertici di quei triangoli ideali che all’improvviso colpiscono l’occhio nello spazio dipinto, come negli aquiloni, come nelle tende sospese a parabola, come nelle prue delle barche o nelle estremità di certi cappelli fantasiosi. Questi profili deltizi, che ogni tanto spuntano nel quadro, librano sulla stasi delle forme la leggerezza aerea dell’involo. La presenza di strutture così geometricamente calcolate non sorprende in questo pittore che abbiamo definito “meditativo”. Esse pongono piuttosto il problema della loro origine, se siano unicamente fluite dalla sua interiorità o se non rechino anche il ricordo di fonti estetiche a lui care. La personalità di Turci, nel rapporto fra la geometria compositiva e l’espressione fisica del suo mondo, traduce un canone che non vuole giungere alle estreme conseguenze ed assolutizzare la concezione cubista di un Juan Gris e della primalità architettonica. Le sue costruzioni lineari non escludono dal quadro il valore espressivo, però lo riducono logicamente ad amletismo statuario. Egli echeggia in questo rapporto l’ammirazione per Piero della Francesca, che nell’architettura prospettica reclama la rarefazione espressiva della trascendenza immota. Giulio adorava questo maestro fra i tanti altri del nostro ‘400, studiati e amati assieme a quelli dei due secoli precedenti; e quante sue indicazioni abbia raccolto può significarlo il frontalismo di certe sue figure e il fissismo dell’opera. Così al pudore ed all’ansia delle realtà eterne si salda anche un riferimento culturale preciso per la comprensione esatta del binomio struttura-espressione. Ovviamente gli echi non sono la voce originaria, e sono giunti sulla tavolozza attraverso un filtraggio personalissimo. Comparando i volti astratti di Piero e quelli aspri di Giulio, avvertiamo quanto sia esatta la definizione scolastica che concepisce l’analogato come realtà identica solo in un certo senso, ma in sè stessa diversa. Nel campo espressivo del santarcangiolese l’originalità scenografica e oggettuale è in sintonia con l’originalità dei personaggi. L’immobilità li blocca in tutte le pose. Le braccia ubbidiscono al suo canone e restano generalmente conserte, o pendono lungo i fianchi; le mani restano in tasca o s’incontrano dietro la schiena; le gambe delle figure sedute o erette, se sono divaricate non accennano il moto, ma raffermano i volumi e ne consolidano la staticità. Non solo Degas, ma neppure Pollaiolo, al quale Giulio si avvicina nel rilievo ossuto dei personaggi, sono presenti in queste sagome. Quando non sonnecchiano sulla spiaggia, si limitano a guardare, e se accettano il movimento, non lo provocano con il meccanismo degli arti, ma si abbandonano alle oscillazioni dell’altalena, oppure addirittura ad un grappolo di palloncini. Persino le pescivendole in bicicletta sembrano frenate da un indecifrabile surplace. Questi sono i personaggi di Turci. La loro essenza contemplativa può trasparire nei modi più diversi, plastica sotto l’ombrello, estatica nelle contrapposizioni frontali, assorta sulle note del violoncello, interrogativa nei crocchi di persone, trasognata quando i volti sporgono dal di fuori sul davanzale per guardare verso il mistero di un interno vuoto. Così la linea sfocia sempre, oltre la varietà modale che la connota, nel fissismo enigmatico dell’espressione. Se spingessimo ai dettagli minimi la ricerca del processo compositivo, osservando che le sagome della prima maniera appaiono generalmente tozze, mentre più tardi tendono a snellirsi ed allungarsi; se aggiungessimo che lo scenario può presentarsi con angolazioni contrapposte, deserto con una sola sedia o un ombrello solo, oppure sovraffollato di volti e di cose; se analizzassimo tutte le creazioni delicate della fantasia turciana (ma come non cennare il delizioso “Natale” che incornicia la madre con il figlio nella curva di una siepe dinanzi agli orchestrali ed ai bimbi stupiti?), verificheremmo invariato l’effetto espressivo ultimo: l’immobilità contemplativa! Perciò la deduzione fissista, da noi anticipata nella retrospettiva tematica, resta convalidata dall’analisi della struttura lineare.
Questa logica di corrispondenze fra l’interiorità dell’artista, le sue simpatie estetiche, gli aspetti contenutistici e gli sviluppi compositivi, raggiunge la propria compiutezza nella qualità luministica dell’opera. L’amletismo immoto può esprimersi con un’accensione di colori fiammeggianti? Nessun canone proibisce alla libera fantasia di legittimare una simile ipotesi. Ma Giulio opta spontaneamente per una gamma che sul pudore espressivo dei personaggi effonda, attraverso l’attenuazione delle brillanze, il pudore della luce. In questa coerenza fra linea e colore la sensibilità ottica dell’artista compie la sua prova suprema. In essa germina il miracolo di un’atmosfera trasumanata, che non sorge dalla percezione fisica del giorno, ma dalla profondità dell’essere come respiro inviolato. In realtà quella luce non è stata esperita sulla riva neppure nelle ore dell’albasia mattinale, ma è nata nella mansarda di via Don Minzoni, dalla tela stessa, cioè dall’anima di Turci. Si direbbe che tutta la storia della sua pittura finora abbozzata, sia soltanto prologo di quella luce; e si direbbe simultaneamente che il sostrato lineare-espressivo sia emanato dalla condensazione del suo spettro. Tanto l’osservatore è tentato ad interpretarla come fondamento dell’intera costruzione, quantunque in pratica sia giunta per ultima. Il modo con cui viene creata si affida ad una lunga, paziente, metodica sovrapposizione di velature tonali, che ne rendono difficoltosa la riproduzione litografica e ne problematizzano l’esegesi ricostruttiva. È impossibile infatti sezionare l’insistente stratificazione del colore e misurare il criterio del suo dosaggio. La luce di certi quadri appare così misterica da lasciarci sospesi fra desiderio di decifrazione e incanto fruito. permettendo unicamente di penetrarla con delle osservazioni descrittive. Naturalmente il pittore non è giunto in un attimo alla maturazione cromatica, e se volessimo percorrere nuovamente il cammino, dalle prime prove alle ultime acquisizioni, riscontreremmo parecchie fasi intermedie e tentativi transitori. Si osservi a tale proposito l’evoluzione cromatica subita dal paesaggio nella, che risale al 1955. Fra le tonalità corpose e acerbe dei quadri iniziali e il lucore espanso del tardo periodo esiste il medesimo divario che abbiamo scoperto nel campo tematico e compositivo. Giulio ha regalato ad ogni soggetto la luce propria. che quindi è passata da una vita naturalistica ad una fruizione spirituale. L’effetto visivo rimane ovviamente diversificato anche ad opera di altri fattori, primi fra tutti la spatola e il pennello. La spatola di Turci non è grassa, non è violenta, non stende lunghi strati di vernice, ma grinza ugualmente lo spazio nei punti d’increspamento: l’ effetto visivo è morbido e vibratile. Il pennello invece dilata fino al limite le campiture della trasparenza immateriale: l’occhio s’immerge in un involucro di stupore, e l’effetto prodotto da quell’atmosfera suggerisce l’immobilità raccolta dell’illuminamento polare. A questi due risultati d’insieme (secondo la spatola o il pennello) contribuiscono in modo particolare tutti i colori che compongono l’atmosfera turciana, come il grigio-perla, il cilestrino, il verdigno, il marrone chiaro e scuro, il cinerino, il bluastro, tutti presenti volta a volta nello sfondo dei quadri. Ma sulla loro spettralità avvolgente, o sulla loro intensità graduata con trapassi infinitesimali, quante sordine di colori alternano il proprio ritmo con la delicatezza delle cromie. L’occhio che ama l’opera di Giulio prova une delle gioie più indicibili nel seguire la loro migrazione da una forma all’altra. Il rosa, il vinaccia, il gialliccio, l’azzurrino, il violetto, il grigio, il biancastro, commisti ai colori precedenti trasvolano dal grembiulino dei bimbi, dalla camicetta della ragazza, dal vestito dei personaggi, dai cappelli, dagli ombrelli ai casotti, alle tende, ai palloncini, ai violoncelli, alle barche, agli aquiloni, a tutte quelle immagini che abbiamo contemplate, si avvicendano e si scambiano i ruoli, scompaiono e ritornano senza fine, contrappunto tonale per questa deliziosa musica di gamme. La storia dei colori ci risulta così come una conseguenza sillogistica scaturita dalle premesse dei contenuti e dei criteri costruttivi. L’artista, coerente e rigoroso, ha creato la luce nuova per uno spazio innocente, ove le forme trovano, nel trapasso e nell’accordo delle soffusioni, il coefficiente cromatico dello stupore pudico e dell’enigma trasognato. Non è difficile rinvenire qualche deroga al criterio generalizzato dell’affievolimento coloristico; in tal caso, più che ricorrere alla casualità imprevista, bisogna cercare una motivazione plausibile nell’interiorità dell’artista che calcola scrupolosamente il dosaggio delle sue tinte. E quell’interiorità può rivelarci sfumature adorabili: il bianco permane con la purezza della sua luce, fra il contorno delle gamme schermate, nel vestito e nel velo della sposa! Ignoriamo quali sviluppi avrebbe avuto la pittura di Giulio se la morte non l’avesse rapito. Uno degli ultimi quadri ci mostra i medesimi accorgimenti tonali ed espressivi, ma l’imbarcazione non giace più sull’arenile: è tornata nell’acqua del mare, come se volesse salpare verso i reami di quel mistero, che per essere sondato esige il distacco dalla riva mortale.
Purtroppo egli non ha mai affidato all’approfondimento di una monografia sistematica le fonti, le direttrici, i traguardi della sua ricca avventura pittorica. E neppure ha interferito molto sulle valutazioni disparate della critica. Schivo e laborioso, ha contemplato il suo mondo senza pensare ad allinearsi o ad imbastire polemiche esibizionistiche. In fondo ha lasciato che lo catalogassero come volevano. Qualcheduno lo ha definito un narrativo, altri un ironista, altri un realista, altri un surrealista, ed altri hanno rilevato il clima felliniano diffuso nella sua opera. Le fasi dell’itinerario e le conseguenti variazioni stilistiche possono legittimare tali definizioni, ma il rispetto della cronologia dovrebbe suggerire la presenza di spunti “turciani” nell’opera di Fellini, non viceversa. Guardando oltre la cortina definitoria. cerchiamo prima di tutto l’elemento che si ritrova con impressionante puntualità nei quadri di Turci. Egli in tantissime fotografie sorride, ma i volti delle sue figure non sorridono mai. Egli si è mosso, ha viaggiato in tante parti, in Italia e all’estero. ma i suoi personaggi sono sempre bloccati nello schema di un geometrismo intransigente. Egli ha contemplato i nostri meriggi e l’abbaglio dei cieli esotici, ma i colori della sua atmosfera cercano costantemente l’attenuazione soffusa. È facile concludere che il narrativo e l’ironista, il realista e il surrealista (aggiungiamo anche il naturalista e il caricaturale) sono specificati dalla costanza di queste componenti che la nostra indagine ha verificato. Pertanto possiamo trovare solo in esse i termini per una definizione appagante. Restringendoci ora alla seconda parte di questa pittura, che è poi quella più originalmente sviluppata, essa appare senza dubbio avvolta nell’alone di quella solitudine plastica, in cui confluiscono echi dechirichiani e germi del messaggio surrealista: tanto le figure di Turci, sospese fra preclusione e comunione. fra coordinazione e dissolvimento della realtà richiamano l’esteta agli archetipi ove un simile effetto può trovare una collocazione teoricamente consaputa. Certi disegni, che, essendo probabilmente soltanto studi, possono presentarci un Turci proteso verso la deformazione rivoluzionaria, non devono trarci in inganno. Vista in questa prospettiva, l’opera trova solo una catalogazione generica, anche per l’indeterminatezza del secondo surrealismo, diffusosi nel dopoguerra e caratterizzato appunto dall’ambiguità fra rottura e fusione. Giustamente è stato scritto che questo tipo di surrealismo acquista un’accezione talmente fumosa da poter essere applicato quasi a chiunque. Tutti hanno una certa dose di surrealismo, perchè tutti aggiungono un supplemento fantastico anche nell’opera d’arte più veristica. Per tale motivo la nostra ricerca, mentre ha fatto allusione esplicita alla corrente surrealista, ha voluto approfondire la genesi e il costrutto di questa pittura nella sua tipicità irripetibile. Ciò che la specifica non è tanto il movimento estetico echeggiato, quanto la singolarità del triplice processo tematico-compositivo-cromatico. Tale singolarità spinge a cercare una categoria unificatrice che superi inverando le differenti valutazioni critiche. Se tentiamo di definire Turci un lirico dello spettacolo, forse siamo molto vicini al nucleo originario della sua opera. Pensiamo soltanto ai temi ludico-scenici, e pensiamo all’analisi del segno espressivo che ci ha ripresentato il personaggio più drammatico del teatro (Mallarmé lo definiva “l’unico”), Amleto, il personaggio che ricapitola la nostra tensione implacabile fra l’essere e il non-essere. Aggiungiamoci la coerenza luministica. intesa come sospensione delle brillanze, per concludere che quest’universo è veramente e straordinariamente singolare nello spettacolo che ci presenta. Turci è un solitario che somiglia a tutti nell’ora della profondità esistenziale. Perciò egli non ha bisogno di perorazioni avvocatesche per dimostrare che la sua arte rappresenta un’innovazione riguardo ai pionieri della corrente in cui lo si cataloga. Egli è solo sè stesso perchè si è fatto da sè. Ha ignorato volutamente gli altri per offrire a tutti il messaggio di una bellezza ove l’espressione assorta della linea coincide con l’incanto vergine della sua luce.
Enrico Filippo Gasparrini
Da catalogo monografico di E.F.Gasparrini (1980)
Ramberti Arti Grafiche Rimini
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