A un anno di distanza dalla prima grande mostra dedicata a Giulio Turci e promossa, con la cura di chi scrive, dall’Associazione Sigismondo Malatesta (nella Rocca Malatestiana di Santarcangelo di Romagna) e dalla Biblioteca Classense di Ravenna (nella Galleria della “Manica Lunga”) vedo che la figura dell’artista continua a sollecitare riflessioni. (1) E certamente seguiterà a esortarne, svincolata com’è la sua pittura dalle ansie dell’attualismo, che furono (e sono) da annoverare tra le principali dittature cui fu sottoposta l’immaginazione occidentale dall’Ottocento in qua.
Nell’osservare tutte insieme le sue opere, si poté toccar con mano quanto pittura e grafica di Turci intessano memorie quattrocentesche e realismo della fotografia francese di Atget, che transitò nel cinema di Renoir e approdò nelle prime opere di Visconti e Antonioni; ma anche intramino pensieri dispiegati su Piero della Francesca e Carrà, su Sironi e le materie sofferte di Morlotti, su Morandi e le tarsie romagnole del XV secolo, intrecciando staticità bizantina e mondi vuoti degli americani Sheeler e Hopper.
Ne consegue che l’arte di Turci è senza tempo, non s’intrappola nel contingente né nella tendenza, ma nemmeno elude il racconto né schiva la “situazione”. Tuttavia questo cucire trame con personaggi e interpreti immobili in mondi bassi, spogli, remoti, consunti, passa al filtro di uno stile non realistico, si deposita in materie tormentate, in colori appassiti, in sofisticate stesure di grigi, ocra, rosa, celesti, argento, lilla, oro, mentre le immagini sospendono in boules vuote d’azione e prive d’atmosfera proprio quelle storie che stanno rappresentando. Se l’esito è dunque sempre narrativo, il procedimento è invece astratto, imbevuto fin nella più riposta fibra dell’intelligenza della materia in sé, della rovente percezione del dinamismo oscuro e germinante delle terre intrise di natura. Ne discende un’arte cifrata, elusiva, reticente, ermetica, dove i simboli s’acquattano nell’apparente o fuggono a ripararsi altrove, imprendibili, polimorfi e misteriosi come stille di vapore mercuriale. Attraversate da cima a fondo da brividi trascendenti, le opere di Turci non si sottraggono tuttavia al gioco, ma considerano anche giostre arrugginite, palloni colorati
di tinte flebili, altalene cigolanti in riva al mare; ma il “gioco, quando è vero gioco, è sempre confinante con la metafisica” (Piovene di Bioy Casares).
Sicché il libro figurato che Turci scrisse per tutta la vita non è altro che il racconto fantastico di una segreta avventura, un romanzo di fantascienza tanto più enigmatico quanto più nutrito di forme e climi da tutti riconoscibili, salvo poi inoltrarsi in una dimensione dove lo spazio sostituisce il tempo e il congegno che ne regola il destino non è un plot fenomenologico.
La realtà di Turci è più mentale che fisica, ma terra anch’essa, anch’essa “corpo celeste, o oggetto del sovramondo” (Ortese): una scoperta che in uno dei quadri più delicatamente sbigottiti del pittore, che è l’Allunaggio del 1968, si trova a fare uno sparuto gruppetto di persone scaricato chissà come sulla Luna, da dove guarda con silenzioso stupore una grande terra azzurra e bianca sospesa nel vuoto e nel buio: La terra vista dalla luna titolava Pasolini un suo film del ‘67.
Ma di misteri e sospensioni è ricolma l’arte di Romagna: o meglio della Romània esarcale che depositò nel cuore dei secoli forme immote, arcane, mute, guidando la mano di tanti artisti a comporre immagini non effusive, non assertive, asperse di imprendibili melanconie e prive d’azione: una lunghissima storia della pausa e della sosta dove, più di qualsivoglia dinamismo, si concentrano brucianti esperienze e avvengono ardenti prodigi di conoscenza: si pensi a Giovanni da Rimini e a Piero della Francesca al Tempio Malatestiano.
Turci amò allo spasimo i mosaici ravennati e questi pittori, in una Romagna peraltro da sempre vòlta a Oriente, dove l’Adriatico, che è il mare orientale d’Italia, il Lago Greco degli antichi, portava da Rimini in Grecia e nel Mediterraneo le ambre baltiche lavorate dagli Etruschi a Verucchio; recava a Rimini nel II e III secolo dopo Cristo culti egizi di Giove Ammone e Dolicheno, nonché una rara statua del tempo di Psammetico II; vi sbarcava poi, nel IV secolo, maestri museari della Sicilia africana; per non parlare di Ciriaco d’Ancona che, veleggiando in Adriatico, recapitava a Sigismondo Malatesta notizie dirette dal Peloponneso, dall’Asia Minore, dall’Egitto, mentre il Signore di Rimini diveniva cugino dei Paleologi di Costantinopoli nonché geniale interprete e seguace delle culture sapienziali ed ermetiche di Bisanzio.
Ma da dove provenivano in Turci, oltre che dalla sua anima, quell’intimismo e quella melanconia mai nostalgica; quali sono la fonte e la strada che lo portarono a rendere fatto culturale un fatto individuale? Qual è l’origine di quel sentimento della fine, della soglia e del relativo, assai più vicino al sense du désespoir di Leopardi che ai commossi palpiti di Pascoli? Quale la discendenza di quell’attenzione mai sentimentale, e tanto meno compiaciuta, a tutto ciò che è umile, modesto, feriale, spoglio, dimenticato; quale l’etimo di quello sguardo sostanziato di freddo trattenuto furore, di passione mentale riscaldata dalla gran fiamma della ragione, di virile pietas che mai inumidisce l’occhio, sempre lucido, solitario, disincantato?
Tutte le immagini di Turci sono nature morte, Stilleben, vita silente, oggetti di ferma spossati nel dimesso splendore, sfioriti tra i sussulti di una materia che trattiene l’eco di antichi sfarzi lacerati dalla storia, sofferte memorie di un passato andato in cenere, frammenti dispersi di una Waste Land con cui “ho puntellato le mie rovine” (Eliot).
Ci fu allora chi insegnò a tutta la Romagna, fino al cinema di Fellini, fino alle poesie di Raffaello Baldini, Tonino Guerra, Nino Pedretti, il canto minimo, lo sguardo puntato a scrutare poesia, a vedere bellezza negli angoli dimenticati di stanze disadorne e sperdute: e si dovrà risalire al Settecento, e dovremo soffermarci su Nicola Levoli.
Mettendosi a seguire le molte ombre e la poca luce rannicchiate tra scaglie di pesci e piumaggi d’uccelli, Levoli dipinge il crepuscolo, confine ineluttabile alla notte. Tanto più alta la sua poesia, quanto più scarne le parole e le cose cui affidare la voce, sommessa rapsodia di poche note smorzate sull’ombra, e sul quel po’ di luce rimasta sulla soglia del buio. Impastando scarsi pennelli con poco colore, Nicola non poteva sapere che di tutto ciò stava dipingendo la memoria, o meglio stava imprimendo sulla tela l’odore e il sapore di luoghi riposti e silenti, invisibili alla ribalta, retrocucine buie, fondachetti vecchissimi, poi scomparsi da tutte le case e dalla vita. E con loro spariti i cortili sbrecciati, i mattoni decrepiti, i muschi sconnessi, i licheni corrosi, le voci di giochi semplici, i lunghi passatempi tediosi tra le caldane estive, il ronzio dei mosconi, le parole non usurate, il tempo lento, le ore molli. Tutto pulito, abraso, spianato. Tutto uguale. Tutto perduto.
Proust dirà:“Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo come anime a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del mondo”.
I quadretti di Nicola sono queste “goccioline quasi impalpabili”, imbevute della memoria del tempo interiore, inzuppate di ore senza misura, che continuano a pulsare in quelle poche piume, in quel po’ di mondo inerte e infinito.
Scavate nel silenzio, le cose di Nicola si cercano, si chiamano, s’incontrano, talvolta s’assiepano, talaltra diradano su tavole, mensole, ripiani. E’ una frontiera popolata da animali morti, o da animali vivi e fermi, o da oggetti abbandonati, l’uomo non c’è e non sai se è appena partito o invece sta per arrivare, niente si muove e tutto aspetta. Tutte queste cose trattengono la memoria della loro vita, ma stanno ancora su questo mondo, non sono diventate altro, anche se in tutte respira qualcosa di sfuggente e sconosciuto, che è forse una notizia di quell’eterno che di là le attende: così come accade ovunque nella pittura di Giulio Turci, dove ritroviamo quella stessa percezione della soglia, il medesimo enigma che frastaglia il confine su cui Levoli indugiò per tutta l’esistenza. “Tutto ciò vi sembra ora bello da vedere perché a Chardin apparve bello da dipingere. E gli sembrò tale perché lo giudicava bello da vedere”. Marcel Proust così leggeva le nature morte, frutta, animali, pesci, utensili dipinti dal grande pittore francese. Vorrei modellare le sue parole su Nicola, Chardin di Romagna, che a tutti i più alti intelletti dell’Adriatico futuro insegnò l’osservazione dell’ordinario, del consueto, dell’insignificante, la cui traduzione in pittura avvenne con mezzi altrettanto scarni, ugualmente ridotti, gli unici in grado di rivelare quale mistero, quale eternità si addensino tra le ore opache di un giorno qualunque, dove Turci per tutta la vita inabissò il suo sguardo bruciante di nera ossidiana.
Ma da dove proveniva sia in Levoli sia in Turci quell’indole comune che li spingeva a una pittura misteriosamente spoglia, dove l’imperscrutabile solitudine dell’oggetto, vuoi cosa, vuoi persona, par messa tra virgolette a comunicare ben altro? L’inattingibile silenzio delle loro opere volge in poesia brividi arcani, soffi misteriosi, folate ermetiche ed esitanti bisbigliate sul tremulo confine del non detto, come in Chardin, come nel cosiddetto “Magini” di Fano, che poi chissà chi è.
Non è difficile immaginare come l’origine di questa particolare inclinazione sia anch’essa da cercare nella lunghissima storia romano esarcale di Romagna, che nel tempo generò una lenta sedimentazione di complicate attitudini, spesso imbevute dalla travolgente vocazione bizantina al simbolo, dall’irresistibile propensione al codice,alla cifra, alla metaforica trasposizione della realtà, prendendo spesso la via anche del crittogramma, del segno nascosto sotto altri segni, del continuo spostamento di significato che troverà concordi anche gli islamici nati in terra bizantina e che in Adriatico trovò il proprio insuperato emblema nel Tempio sigismondeo di Rimini. E’ da credere che i silenzi chiusi di Levoli sarebbero piaciuti agli orientali, se fossero andati a visitarlo: così come il mondo di Chardin pare sollecitasse l’attenzione degli Ottomani. Cosa cercava Mehmet Efendi, tesoriere dell’impero turco e ambasciatore straordinario del sultano Mahmut I, in visita nel dicembre 1741 allo studio parigino dell’artista?
Due secoli dopo, l’enigmatico mondo di Levoli trasmigrerà dunque in quello di Turci, che riveste di moderno disincanto quell’antica criptata astrazione.
Fu perciò inevitabile che Turci piacesse molto all’Est: invitato dall’editore Ico Mutevelić, l’artista dal 1965 in poi si recò più volte a Mostar, splendida città dell’Erzegovina mortalmente ferita nella guerra dei recentissimi anni Novanta.
Nel periodo in cui “di là” s’andava pochissimo, e le ragioni principali della maggior parte di coloro che vi si recavano avevano poco o nulla a che fare con la cultura e l’arte, l’iniziativa di Mutevelic si screzia di tinte straordinarie. Aveva infatti compreso con decenni di anticipo ciò che uno smagritissimo drappello di intellettuali solo più tardi capì, e cioè che la separatezza tra mondo slavo e terre italiane, e tra l’Oriente adriatico e mediterraneo e l’Occidente europeo, è fatto recente e di natura esclusivamente geopolitica, che con l’humus lentamente depositato dalla storia non ha nulla a che vedere. E non dimentichiamo che Mostar, a pochi chilometri dal mare, sta, sull’altra sponda, esattamente dinanzi a Porto Civitanova Marche.
Anni 1965-1976: Turci espose a Mostar, Sarajevo, Belgrado. Invincibilmente attratto dalle secolari sapienze depositate in quei magnetici luoghi di Erzegovina, di Bosnia, di Serbia, si lasciò rapire da Mostar, da Počitelj, dalle bianche moschee sulla Neretva turchese e sassosa; si tuffò, tra rocce e boschi, nelle acque sorgive del Buna a Blagaj, l’antica Bona romana, dove, avvinto all’altissima rupe, il monastero dei dervisci specchiava dal Cinquecento le proprie piccole forme. Al solo alzare gli occhi alla cupola dell’hamam, la volta traforata di stelle portava in cielo, mentre le tombe dei monaci Sarisaltuk e Ačikbaša ricordavano il mistico fondatore, il celebrato sufi Mevlana Gialâla ad-Dîn Rûmî, luminescente filosofo e poeta nell’anatolica Konya del Duecento.
Allegra, certo, Mostar, oasi felice di tetti di pietra chiara alle pendici del Velež, del Čabulja, dello Hum, monti fatati di calcare grigio e violetto. Ma anche dolcemente sepolcrale, come sanno esserlo solo quelle città d’Oriente da sempre crocevia di convivenze, dimore di vita e di morte affrontate con nozioni e indoli certo dissimili e spesso collise tra loro, ma alimentate di sostanze assai più tacitamente analoghe di quanto la storia induca a dichiarare. Ecco allora le türbe, steli funerarie islamiche, intessere con le proprie astratte grafìe memorie leggere come filamenti di parole appena increspate da un soffio, mentre più in là gli alfabeti cirillici compongono, al modo bizantino, più solenni e austere cerimonie. E più lontano, a Radimlja, una grande necropoli dispiega gli innumerevoli cippi in antico serbo croato, unici resti dell’antica cultura di Bosnia, taluni scolpiti con figure umane arcaiche, immobili, frontali.
E il ponte, poi, quel ponte: il most che dette il nome alla città e un destino ai suoi abitanti, i guardiani del ponte, i mostari.
Turca dal 1468 al 1878, la città era il bianchissimo ponte, la “mezzaluna di pietra” s’identificava con la sua anima, era il capolavoro costruito tra il 1557 e il 1566 dall’architetto Hajrudin, discepolo del celeberrimo Sinan.
Il ponte era soprattutto reale e simbolica congiunzione tra le due rive dell’Erzegovina, lambite da quella Neretva che porta notizie dirette dall’Adriatico, con cui s’abbraccia a cinquanta chilometri mitigando l’aria fredda della Bosnia montuosa.
Non si poteva dimenticare, passeggiando su quel ponte, vertiginoso arcobaleno di luce bianca alto venti metri sul fiume, la storia di un suo congiunto, quel Ponte sulla Drina reso celeberrimo nel 1945 dal romanzo di Ivo Andrič (1892- 1975), nato nella bosniaca Travnik, premio Nobel nel 1961 e caposaldo della letteratura serbo croata. Il ponte sul fiume Drina a Višegrad, nella Bosnia orientale ai confini con la Serbia, evoca le vicende dei suoi abitanti dagli inizi del Cinquecento alla prima guerra mondiale, saldando i destini di musulmani, cristiani, ebrei.
Andrič amava Mostar, trovò memorabile la sua luce, che l’accolse splendente al suo arrivo in città: “E’ questa luce che più mi ricorda Mostar”.
Turci sprofondò in tutto quell’assorto incanto. Ascoltò i racconti fiabeschi su Derviš Pascià Bajazidagič che in mezzo ai frutteti di Predhum, sulla riva della Radobolja, costruì una moschea, una medrese, una scuola elementare, una biblioteca. Era il 1592, e Derviš cantava il ponte “sul magico fiume:/ la sua volta maestosa/ era l’iride multicolore”.
Turci s’incantò nell’udire le memorie sul leggendario Muhabir Hasan, che nel Seicento, a Mostar, era un contesissimo interprete di sogni. Nella città di pietra lucente, di fiumi, di rocce, di soglie, di mistici dervisci, di turchi illuminati, di antichi bizantini e slavi dunque si sognava come ovunque nell’Oriente costantinopolitano islamico. E, come un velario impalpabile, quell’immaginazione affrancata dalla materia, ma misteriosamente creata dal corpo, avvolgeva i minareti di brume chiare e oscillanti, costeggiava le acque di smeraldo, lambiva le cupole convesse al modo bizantino, sfiorava i piccoli giardini.
La casa di Svetozar Corovic era un luogo visitato da mille sortilegi. Nato e morto a Mostar (1875-1919), il narratore vi piantò nel cortile due grandi cipressi e un fico. Più tardi vi passò gli ultimi anni della vita il poeta Aleksa Šantić, anch’egli di Mostar, dove nacque e morì (1868-1924); vicino agli alberi di Corovic dispose un melograno, mentre una stanza conservava i suoi manoscritti e la sua biblioteca. Seduto sul bordo di una fontana di marmo, Šantić beveva caffè e fumava il narghilè. Osservava alberi e fiori offrirsi alle prime ore del mattino o rischiararsi di notte alla luna: “Sul fiume, come un cigno bianco/ ecco Mostar ornata di sole e di gemme/ fremente e tesa verso i culmini/dei minareti, sembra spiccare il volo”. E anche: “. . . in basso occhieggia Mostar coi lampioni,/ e dorme. La copre il manto della Luna”.
Qui Turci sostò per anni: e per giorni e per ore non distolse lo sguardo da quel cipresso, dal fico, dal melograno. Quell’orto era ai suoi occhi una frugale Giverny d’Oriente, custodiva intatte impresagibili intermittenze del cuore, era pausa, sogno, poesia, attesa, convenuti nell’umana perfezione di pochissima natura lì raccolta da due commossi poeti dell’Erzegovina sincera.
E Mostar, allora, e Počitelj, non potevano essere altrimenti che luoghi chiamati all’arte, e anche resistenti ai torvi precetti socialisti del secondo dopoguerra.
Luogo d’incontro, tra Otto e Novecento, di pittori provenienti da tutte le regioni balcaniche nonché da quelle dell’Austria Ungheria, Mostar rappresentò una irripetibile enclave di passioni. Nella Galleria di Belle Arti (collegata a quella di Sarajevo) si potevano ammirare, tra i molti, l’indolente sprezzatura degli acquerelli eseguiti da Luka Šeremet (1902-1932) alla fine degli anni Venti, e la rotonda eleganza di quelli dipinti da Karlo Afan De Rivera dagli anni Quaranta ai Sessanta (era nato nel 1885); oppure, ancora, i paesaggi di Nedeljko Gvozdenović (nato nel 1902) composti dal 1950 sui margini di boschi invernali: poesia in grigio e in silenzio che non mancò di attirare lo sguardo di Turci.
Poi arrivò Mersad Berber, il più giovane, del 1940. Turci lo amò molto per la sua ornata grazia bizantina, per la leggerezza da sogno orientale, per la compunta delicatezza delle sue figure, che sembrano rammentare certi preziosi volti dissotterrati dalle remote sabbie del Fayyum. L’Erzegovina ha sempre amato l’Adriatico pensandolo come suo mare, benché ne temesse, da turca, gli assalti veneziani, così come le lunghe coste italiane paventarono per lungo tempo gli Ottomani.
E va detto che solo nel tardo Ottocento, da quel 1878 che sancì il passaggio di questa terra all’impero d’Austria Ungheria, l’Erzegovina s’aprì all’Europa: e si comprende che solo in questo clima potessero nascere i soavi versi giovanili di Jovan Dučić (1874-1943), quegli Jadranski Soneti (Sonetti Adriatici) composti nel 1898-1906.
Ma certo l’Erzegovina accolse Giulio Turci come suo figlio non perché europeo o italiano, ma perché artista adriatico e orientale, che dinanzi a loro dispiegava un canto fermo e solitario, versi dolenti di memorie impolverate di luce e scirocco, di un interiore tempo bizantino, esarcale, contemplativo, stupefatto e spirituale come quello dei dervisci, quello mistico di Konya, cuore neoplatonico islamico che pulsò all’unisono con i bizantini antichi
Gli artisti d’Erzegovina amarono Turci come fratello: nei suoi dipinti ritrovavano la disadorna intensità oracolare, il linguaggio spoglio e geroglifico, le perpetue cadenze simboliche che da sempre intridono l’anima bizantina- islamica-ebraica di quelle terre memorabili e vicine.
Mentre alle origini di tutto questo, per Turci, non potevano sapere che ci furono anche le ermetiche penombre di Nicola Levoli, un frate, non a caso, un religioso adriatico, chino come i contemplativi dervisci di Blagaj sulle mute rivelazioni di pochissimo mondo infinito.
“Ebbene, tutta quella ballata fantastica e lirica, quell’autentico capolavoro d’ispirazione consisteva in queste poche parole disposte in un ordine ideale e irripetibile: banco corallino, istante, eternità, foglia, e in una parola misteriosa e assolutamente incomprensibile: plumasseria. Folle di paura, rimasi seduto ancora un poco, rattrappito sulla cassa, poi annunciai a mia madre, con voce rotta dall’emozione: ‘Ho scritto una poesia’ ”.
Così racconta Danilo Kiš in un indimenticabile passo del suo Giardino, cenere.
E tutto, ora, è polvere: Mostar è un cumulo di desolate rovine. Non sappiamo con precisione cosa di quegli umani splendori sia restato in piedi, risparmiato dalla sconfinata tragedia: ma impietosamente le immagini che continuano ad arrivare fin qui dichiarano l’orrore assoluto. Il ponte, il sacro most, il cuore vivo dell’Erzegovina, è scoppiato sotto le bombe: al suo posto si spalanca ora una costernata, lugubre caverna d’aria.
E anche l’Adriatico, già disteso a marezzare l’Occidente di Romagna e l’Oriente di Erzegovina, dopo Mostar, e la Bosnia, e il Kossovo e quant’altro di efferato possano produrre i viventi, non trasmette più su bianchi vascelli messaggi di consolante consanguineità poetica, ma trasporta, su sconce e lugubri barche, solitudini desolate, anime ferite, storie divelte, incalcolabili tragedie.
Ma, a onta di tutto, Mostar vive: “La luce mi accolse all’arrivo a Mostar, mi accompagnò da mattina a sera e, dopo la mia partenza, rimase nei ricordi il tratto dominante della città”. La luce raccontata da Ivo Andrić non è solo fenomeno meteorologico, ma anche fatto spirituale,contemplazione della bellezza, chiarore neoplatonico irrorato di grazia; è il “nirvana di cristallo”, il cammino verso il sole di Mevlana Gialâl ad-Dîn Rumî; è il sole apollineo di Pletone, è vittoria sul buio, trionfo sulla morte, promessa di redenzione.
Fu quella stessa radiosa trasparenza, che unisce e affratella, ad aver accolto Giulio Turci, che lì ritrovava la medesima luce perenne sigillata tra i marmi bianchi del Tempio Malatestiano.
“Restate qui! Il sole di un cielo straniero/ non vi scalderà come questo vi riscalda”. Indifferente alle divergenze etniche o religiose, Aleksa Šantić esortava i musulmani a non abbandonare Mostar dopo l’occupazione austriaca di quelle terre poiché su tutti, islamici, ebrei, cristiani, discendeva la medesima luce, simbolo perpetuo di riscatto nella comune bellezza dello spirito.
“Zora”, “Aurora” si intitolava non per caso la rivista letteraria di Mostar, di cui Šantić fu voce e anima intensa e mai dimenticata: e oggi, dopo il martirio, su Mostar ha preso di nuovo a sorgere un’altra umanissima aurora, assorta testimone di rinascita, sol invictus tornato a risplendere su quelle macerie luttuose e sulle umiliate e ferite acque adriatiche di Oriente e Occidente, nell’attesa che il giorno pieno tramuti quella cenere morta in viva ed eterna polvere d’oro.
Il testo apparve nel 2002 nel volume di Laura Muti e Daniele de Sarno Prignano, A tu per tu con la pittura: Studi e ricerche di Storia dell’Arte, per “Arte Documeto” dell’Università Ca’ Foscari di Venezia diretta da Giuseppe Maria Pilo.
Edit Faenza e Edizioni della Laguna
da “Omaggio a Giulio Turci (1917-1978), Una Storia Adriatica
Mostra promossa da:
Istituto dei Musei Comunali Città di Santarcangelo di Romagna, Comune di Santarcangelo di Romagna e Associazione Giulio Turci.
Cura Scientifica della mostra e del catalogo di Gabriello Milantoni
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