Una fotografia scattata a Santarcangelo al tempo del celebre "nevone", disceso sull'Italia nell'inverno del 1929, ritrae Giulio Turci a dodici anni: fermo, ritto, serio, ha le braccia conserte e serrate sul petto, la gran sciarpa annodata al collo, il cappellaccio floscio calcato sul capo, l'ampio maglione indossato con noncuranza. Alle sue spalle s'adagiano campi di neve bassa, alberi spogli, una breve collina di pochi cipressi: attorno è il vuoto, non c'è persona, non c'è nessuno che strappi quell'aria gelata e remota. Sembra un fotogramma di una presagio, calato a visitar la giovinezza e lì rimasto: a quel tempo Turci si dedicava al violoncello, che per anni studiò nei Licei Musicali di Rimini e Pesaro. Ma non tardò a pervenirgli una diversa urgenza che presto iniziò a tradursi in disegno e poi in pittura, dove la poetica geometria delle forme musicali, soprattutto di Bach, Haydn, Mozart, Vivaldi, da lui prediletti, avrebbe potuto sostanziarsi in immagine. E molti suoi quadri, voltati dal freddo affilato della campagna d'inverno alla molle calura delle spiagge d’estate, avranno personaggi che staranno come sta lui in quella posa premonitrice, infissi e zitti sul confine di spazi inerti. In famiglia, provvista di una speciale attenzione per le arti, il giovane trovò quanto potesse desiderare: il padre, anch’egli di nome Giulio, era clarinettista, ma anche avviatissimo e benestante fotografo con una rabdomantica passione per il cinema. Negli anni Venti, insieme con Caio Carlini, nonno del ben noto attore Paolo, edificò l’Eden, prima sala cinematografica di Santarcangelo, tutta liberty leggero e decori di stucco, che per più di mezzo secolo rimase attiva e ancora esiste, assai elegante, trasformata in civile abitazione. La madre di Turci, poi, Maria Sarti, era stata attrice a Plymouth nel 1910, nel corso di un leggendario viaggio americano intraprenso nel consorte.
21 maggio 1910, Maria e Giulio Turci, genitori dell'artista, recitano a Plymouth
Negli anni Trenta, per l’irresistibile vocazione alla pittura, Giulio junior poteva poi aver disponibili nella vicina Rimini un buon numero di artisti di grande qualità cui fare, nel caso, riferimento: da Francesco Brici a Gino Ravaioli a Luigi Passaquini; ma furono le spatole cézaniane e i paesaggi plumbei di Emo Curugnani a esercitare una certa attrazione sul giovane romagnolo, mentre ricco di ammirazione, fu nel dopoguerra, l’incontro datato 1947 con il geniale ventiduenne Renzo Vispignani, in visita a Santarcangelo. Tuttavia fu sulle opere di Carrà, Sironi, Morandi e sulle soluzioni figurative del bianco e del nero impresse nel cinema del grande realismo francese e del promo dei Visconti, di Ossessione, nonché sui testi supremi del Quattrocento italiano, da Piero della Francesca a Paolo Uccello, che Turci volle soffermarsi in profondità. Attentissimo all’arte antica, contemplò e fece proprie anche tutte quelle opere, conservate a Santarcangelo, in cui poteva riflettersi la suo indole, portata ad apprezzare climi assorti e sospese melencolie, dal trecentesco Crocifisso riminese, struggente come cero votivo, alle elegantissime cifrature stilistiche del Polittico di Jacobello di Bonomo, datato 1385, al San Nicola Abate e Sant' Isidoro Agricola, sommessa, compunta lirica seicentesca del Centino, al San Giuseppe, il Bambino e Sant' Eligio, tela imbevuta di silenti presagi dipinta da Guido Cagnacci nel 1635: tutte opere custodite nella Collegiata della Beata Vergine del Rosario. Come dimostrano dipinti e disegni, la reticente natura mercuriale di Turci lo spingeva tuttavia a cercare altrove fonti del proprio progresso, che raccoglievano, oltre ciò che si è detto, percezioni riassunte in alcuni travolgenti luoghi adriatici, dal Tempio Malatestiano e dalle quattrocentesche tarsie ai Santi Bartolomeo e Marino di Rimini, alle melencolie d'oro e palude di certa Ravenna silenziosa e ferma, fino a Pesaro, città criptata di presagi, dove il sole risplendette anche di notte (Nocte species, solis Pisauri adfulsit, si legge nel Liber prodigiorum di Giulio Ossequente scritto al tempo bizantino della Pentapoli, nel 591). Dal capoluogo marchigiano, mori- bunda ab sede Pisauri (da una città destinata a morire: Pesaro) proveniva quell'uomo che a Catullo (Carmina, LXXXI) sembrava inaurata pallidior statua (più pallido di una statua dorata): e qui Turci si lasciò incantare non solo dai mirabili commessi lignei in Sant'Agostino, ma anche da una certa Pesaro sotterranea ed ermetica racchiusa nelle figurazioni dell'antico pavimento musivo della Cattedrale. Da tutte queste esperienze l'artista dedurrà il proprio inconfondibile tratto, venato di distillati succhi metafisici.
Nell'atelier agli inizi degli anni sessanta
Straordinario, a Santarcangelo, fu il suo rapporto, intessuto di taciturne intese, con due personaggi di rarissimo profilo, il conte Gaetano (Lele) Marini, raffinato cultore di teatro, e la zia di questi, la celebre e celebrata attrice Teresa Franchini: negli anni Cinquanta, dopo aver abitato nella casa di via della Cella, vicino alla Rocca e di fronte alla Celletta Zampeschi , Turci si trasferirà nell'antico palazzo dei Franchini-Marini in via Molari, dove risiedevano anche Lele e Teresa, che nell' l"ultima parte della vita vi si era ritirata a far scuola privata d' Arte Drammatica. Nel frattempo, e da anni, Turci aveva intrapreso una densa attività espositiva, inaugurata nel 1942 con la partecipazione alla Mostra Interprovinciale di Forlì, proseguita nel 1945 alla Mostra Interprovinciale d ' Arte ancora a Forlì , nel 1951 a Bologna e nuovamente a Forlì, e nel 1952 alla prestigiosa Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone, dove peraltro gli venne conferito il premio Bianco e Nero per la grafica. E tra gli altri numerosi riconoscimenti distribuiti negli anni successivi, ricordiamo almeno il primo premio alla "Mostra del disegno" di Ferrara nel 1957; il "Città di Terni" nel 1959 e 1960; il " Silvestro Lega" nel 1960 a Modigliana; il "Premio Marche" nel 1961 e nel 1964 ad Ancona; il Premio Regionale d'Arte "A.Giovannini" a Bologna nel 1963; il "Premio Suzzara" nel 1966, nel 1968 e nel 1970; la medaglia d ' oro del Senato della Repubblica Italiana ricevuta a Cesena nel 1970 alla prima rassegna nazionale "Arte e Turismo". Le numerosissime mostre lo condussero a più riprese, oltre che in regione (a Ravenna nel 1958, 1964, 1966, 1967 ; e poi a Bologna, Ferrara, Reggio Emilia, Rimini e così via), anche a Roma, Milano, Brescia, Mantova, numerose volte a Verona, e Carrara, Perugia, Montecatini, Sanremo. Espose poi anche all'estero: alla Piccadilly Gallery di Londra e alla Wittemborn Gallery di San Francisco nel 1963; alla Galleria Comunale di Belgrado e a Mostar nel 1970. E fu proprio a Mostar, splendida città dell'Erzegovina mortalmente ferita nella guerra Jugoslava dei recentissimi anni Novanta, che Turci si recò a più riprese a partir dal 1965 invitato dall'editore Ico Mutevelic, geniale promotore di scambi culturali tra le due coste adriatiche. Negli anni in cui "di là" s'andava pochissimo, e le ragioni principali della maggior parte di coloro che vi si recavano avevano poco o nulla a che fare con la cultura e l'arte, l'iniziativa di Mutevelic si screzia di tinte straordinarie.
L'atelier di Giulio Turci (foto Giulio Turci)
Aveva infatti compreso con decenni di anticipo ciò che da noi uno smagritissimo drappello di intellettuali solo più tardi capì, e cioè che la separatezza tra mondo slavo e terre italiane, e tra l'Oriente adriatico e mediterraneo e l'Occidente europeo, è fatto recente e di natura esclusivamente geopolitica, che con l'humus lentamente depositato dalla storia non ha nulla a che vedere. E non dimentichiamo che Mostar, a pochi chilometri dal mare, sta, sull'altra sponda, esattamente dinanzi a Porto Civitanova Marche. Federico Zeri - il cui catalogo della Pinacoteca di Zagabria pubblicato negli anni Ottanta fece da noi l'impressione di un testo scritto da un visiting professor invitato su Marte - ricordava in certe sue conversazioni di aver visto , "sparse per di là", opere riconducibili alla pittura riminese del Trecento, eseguite da anonimi pittori itineranti in Adriatico. E basterebbe poi fermarsi ad Ancona, e ammirarvi lo splendido portale quattrocentesco della chiesa di Sant'Agostino, edificato dal dalmata Giorgio da Sebenico; ma anche leggere l' interessantissimo libro di Francesca Chieli, edito a Firenze nel 1993 (La grecità antica e bizantina nell'opera di Piero della Francesca), per constatare che i rapporti tra le due rive adriatiche erano ben fitti ancora nel XV secolo mentre numerosi resti di marmi romani, distribuiti in siti dalmati, offrirono modelli, forse tramite disegni, per talune soluzioni architettoniche nella pittura di Piero della Francesca. D'altra parte i viaggi compiuti da Turci a Mostar in quei lontani anni Sessanta e in quell'Oriente d'Europa da noi tuttora negletto, non possono non rammentare, insieme all'eccellenza della figura di Ico Mutevelic, la straordinaria postura mentale in tutto "politicamente scorretta" di quell'insuperato periegeta che fu Ciriaco d'Ancona che, nel remoto 1452, in pieno assedio turco di Costantinopoli, anziché schierarsi coi bizantini, come sarebbe stato logico per un umanista italiano, s'era invece messo a istruire il ventunenne Mehmed II leggendogli Laerzio, Erodoto, Livio, le cronache dei papi, degli imperatori, dei re di Francia e dei Longobardi. Per l'anconetano l'Oriente e l'Occidente erano un'unica cosa, e così pensava anche Giulio Turci, che, con quella rarissima intelligenza che non "discrimina" ma "ingloba", continuò fino alla scomparsa a dedicarsi a importanti viaggi. Fu in tutta l'Europa, amando la Grecia e la Spagna; andò in Algeria, a Tunisi, a Malta, in Africa più volte, e in Russia, a Bangkok, a HongKong. Da ciascun luogo l'artista riportava incalcolabili esperienze, ma soprattutto dall'Africa, imbevuta di silenzio perfetto, dove il pittore trovò l'eletto sentimento del vuoto, vicino ai suoi violoncelli senza corde, così analogo alle sabbie zitte tante volte dipinte. E fu in Kenia, nel gennaio del 1978, che Turci volle recarsi di nuovo, incontro a un destino già scritto in quell'altrove di cui sempre aveva percepito il battito muto.
da catalogo Giulio Turci - Dipinti e Disegni Mostra promossa da: Associazione Sigismondo Malatesta, Biblioteca Classense Con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Luoghi: Rocca Malatestiana di Santarcangelo di Romagna (giugno - settembre 2001) e Galleria della Manica lunga Biblioteca Classense, Ravenna (luglio - agosto 2001) Cura Scientifica della mostra e del catalogo di Gabriello Milantoni
Giulio Turci - Designed by 03Studio | Tutti i contenuti presenti nel sito web sono coperti da copyright
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.OkLeggi di più