Ho visto Giulio l’ultima volta da Pitrètt due giorni prima di Natale. Eravamo appena arrivati, mia moglie, mia figlia e io, e già alla fine della solita rimpatriata, con tagliatelle, salsiccia ai ferri, radicchio e vino nuovo. Sul tardi arrivano Giulio e la Terza. Allegra sorpresa, grande “veduta”, i nuovi arrivati si siedono al nostro tavolo, si chiacchiera, mia figlia fissa un pò insistentemente Giulio, lui coglie quell’insistenza e le dice: “Guardi i miei capelli, Silvia? Non pensare che siano così castani. Sono bianchi, come quelli del tuo babbo. Ma a me i capelli bianchi non mi piacciono”.
Silvia tace, è confusa, fa un sorrisetto imbarazzato.
E poco dopo arrivarono in tavola, ordinati evidentemente già nel pomeriggio, due piatti colmi di pesce fritto. Due piatti fra i più belli che io ricordi. C’era di tutto, un’insalata di pesce, fragrante, puntuta, croccante, profumata.
Mia moglie guardava quella meraviglia con una golosità senza appetito, allo stato puro. Giulio le disse: “Ne vuoi, Lina?”.
E lo disse naturalmente anche a me e a Silvia. Mia moglie e io ne prendemmo, Silvia no, si sentiva un pò in colpa. E io lessi sulla faccia di Giulio, che mangiava a denti sporgenti, stritolando secco quelle forme dorate e saporitissime, non solo il piacere di quella cosa elementare, primordiale, che è il mangiare bene, ma anche il piacere, quel mangiare, di recitarlo.
E non era, quella, la tentazione di una sera e di una situazione particolare. Intendiamoci, succede a tutti di recitare. Ma credo che a Giulio succedesse un pò più spesso che ad altri. In lui il senso della realtà doveva essere indefettibile, lui conosceva la malizia, anche la miseria del quotidiano: proprio per questo aveva bisogno, qualche volta, di mettere le cose “in commedia”. Una commedia non tanto per ridere, quanto per dare alle cose e alle persone una dimensione meno imperiosa, meno volgare. Ricordo certe sue battute in dialetto. Il dialetto è sempre un pò teatrale, ma il dialetto di Giulio lo era un pò più di quello di altri. Poi lui aveva un notevole senso del comico, e, dopotutto, era stato da sempre familiare con il palcoscenico e con il telone bianco della Sala Eden. Anche il violoncello, che aveva studiato fino al diploma, doveva essere per lui un personaggio con cui improvvisare qualche buon dialogo.
Penso però che Giulio avesse bisogno, a momenti, di recitare se stesso e le cose non soltanto per difendersi. Anche semplicemente perchè il teatro è gioco, e a Giulio è sempre piaciuto giocare, il teatro è nascondersi e svelarsi, richiede insieme verità e invenzione , astuzia e candore, senso del concreto e gusto del gratuito, partecipazione e distacco. Ma quello del teatro, nella vita, è un gioco in cui gli altri non ti assecondano quasi mai. Anzi. E allora Giulio si ritrovò regista e scenagrafo di un teatro di tela e di colori.
Così nacquero le sue spiagge, le sue donne, i suo i pescatori. Ma c’era sempre, almeno mi pareva, in quei personaggi, in quei paesaggi, una dura severità come una costrizione. Poi, lentamente, i pescatori diventarono venditori di palloncini, e i palloncini crebbero, si ingigantirono, occuparono sempre più spazio nel quadro, un giorno o l’altro sarebbero volati in alto, irresistibili, trascinando con sè lo stupito venditore. Dal racconto Giulio era passato alla favola. Forse sarebbe andato ancora avanti. Dalla favola alla dolce follia delle cose che non esistono ma è come se esistessero, o che esistono ma è come non esistessero. Dalla favola al sogno, all’allegria di chi si inventa le cose e se stesso e i propri capelli, sempre, immutabilmente castani.
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